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L’innovazione non è solo una questione di idee. È una questione di spazio: lo spazio che un’organizzazione sa creare per far emergere il potenziale delle proprie persone.
Nel dibattito internazionale sull’AI applicata alla comunicazione, un concetto sta emergendo con forza: “algorithmic empathy”.
In Smartive partiamo da un’altra prospettiva: la resistenza non è un ostacolo, è un segnale. Un segnale che indica dove serve investire — in dialogo, in senso, in competenze.
C’è un cambiamento silenzioso nel modo stesso di fare cambiamento.
Non bastano più piani, fasi o modelli predefiniti: oggi serve abilitare persone e organizzazioni a vivere la trasformazione come parte integrante del quotidiano.
In un’epoca in cui l’IA accelera ogni processo e moltiplica le risposte, potremmo illuderci che siano proprio le risposte ciò che conta di più.
E invece, nel design del cambiamento, tutto inizia dalle domande.
Nell’era dell’AI, dove tutto corre veloce e il lavoro non ha più confini fisici, i valori tornano al centro. Non come dichiarazioni astratte, ma come bussola concreta per orientare decisioni, comportamenti e relazioni quotidiane.
Ogni viaggio inizia con una direzione. Ma stiamo davvero andando nella direzione giusta o ci stiamo solo limitando a misurare il percorso?
Ogni processo di trasformazione inizia con un gesto semplice e, al tempo stesso, complesso: riconoscere. Riconoscere chi ha costruito prima di noi, ciò che ha funzionato e ciò che ha resistito nel tempo, le fondamenta su cui oggi poggiamo, anche se spesso sembrano da superare.
C’è un cervello elettronico, non so dove, che funziona esattamente come il mio cervello”.
La voce è quella di Italo Calvino e l’anno è il 1978. Un’intuizione straordinaria, che oggi ci sembra
scritta apposta per raccontare l’era che stiamo vivendo: quella dell’Intelligenza Artificiale.
Ogni rivoluzione tecnologica nasce da una promessa. Internet avrebbe dovuto connetterci; in parte ci è riuscito, in parte no. L’intelligenza artificiale oggi promette di liberarci dal ripetitivo e amplificare le nostre capacità. Ma l’amplificazione, di per sé, non garantisce un progresso: rende semplicemente più evidente ciò che siamo.